Radici che crescono altrove: un racconto etnopsichiatrico di stabilità, speranza e reciprocità

Radici che crescono altrove: un racconto etnopsichiatrico di stabilità, speranza e reciprocità

“Addio, monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo…”

Così scriveva Alessandro Manzoni nell’Addio ai monti, descrivendo lo strappo doloroso di chi è costretto a lasciare la propria casa. Parole lontane nel tempo, eppure così vicine a chi oggi affronta il viaggio della migrazione.

Questa storia nasce dentro un CAS, un centro di accoglienza, ma potrebbe riguardare chiunque: italiani, stranieri, giovani, anziani. Perché parla di qualcosa che ci tocca tutti: la ricerca di stabilità, la fatica dell’inserirsi, la forza che serve per sentirsi finalmente “a casa”.

Una famiglia che ce l’ha fatta… ma ora?

C’è una famiglia che da un anno e mezzo vive in Italia. La mamma lavora. Il papà studia. I bambini sono perfettamente integrati a scuola. Non solo: vengono scelti dalle insegnanti per aiutare gli altri bambini appena arrivati. Sono diventati piccoli mediatori di gentilezza, di comprensione, di comunità.

Tutto sembra andare bene. Ma ora, con in mano un permesso di soggiorno biennale, la mamma sente la pressione di partire subito. Eppure, partire adesso — nel mezzo dell’anno scolastico, lavorativo e sociale — rischia di spezzare un equilibrio appena conquistato.

Migrare non è solo spostarsi

La migrazione non è mai solo un fatto geografico. È un’esperienza profonda che attraversa il corpo, la mente, le relazioni. Lo sappiamo da secoli: la storia dell’umanità è una storia di migrazioni. Popoli che si spostano, si mescolano, si reinventano. Ma ogni passaggio porta con sé una dose di rottura, e ha bisogno di tempo per diventare fertile.

Quando una famiglia finalmente trova un senso di stabilità, un nuovo sradicamento può fare male. Può riaprire ferite, creare ansia, innescare disorientamento. Soprattutto nei bambini, che hanno bisogno di continuità, sicurezza, legami.

E se restare fosse un atto di cura?

A volte, aiutare significa anche semplicemente dire: “Aspettiamo ancora un po’.” Aspettiamo giugno. Lasciamo che l’anno scolastico finisca. Lasciamo che questa famiglia possa vivere una transizione senza traumi, nel rispetto dei tempi emotivi oltre che burocratici.

Questa non è una richiesta di eccezione. È un invito alla responsabilità. Alla cura. Alla comprensione delle fragilità, che non sono solo dei migranti, ma di tutti. Perché ogni essere umano ha bisogno di sentirsi riconosciuto, radicato, visto.

Costruire insieme, senza etichette

Quello che forse ci colpisce di più è che questa famiglia, che ieri era “accolta”, oggi sta accogliendo. Sta aiutando. Sta restituendo. I migranti non sono solo da sostenere, ma anche da ascoltare, da valorizzare. Possono e devono aiutare anche gli italiani. Lo stanno già facendo, ogni giorno, nelle scuole, negli ospedali, nelle famiglie.

In fondo, è questa la vera integrazione: non l’assimilazione forzata, ma la reciprocità. Un dare e un ricevere che trasforma tutti. Che rende la società più umana.

Se questa storia ti ha toccato, se credi che nessuno debba sentirsi solo nel momento in cui mette radici altrove, aiutaci a diffondere una cultura dell’ascolto e della cura.

Restare, a volte, è l’atto più rivoluzionario che possiamo permettere

Scritto da Dott.ssa Maria Luisa Mazzetta
Psicologa-Psicoterapeuta
Etnopsichiatra
Mediatrice Interculturale
Antropologa in formazione

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